L’inarrestabile caduta dell’Iraq
Troppo facile descrivere l’Iraq oggi come uno Stato fallito, che rischia la partizione in una regione kurda, una sunnita e una sciita. La popolazione ce l’ha messa tutta per credere nella democrazia e nell’unità del paese, recandosi alle urne ad aprile 2014 con un’affluenza superiore al 60% nonostante l’altissimo rischio di attentati ai seggi. La società civile non ha smesso di lottare per “un altro Iraq”, organizzando a Baghdad nel settembre 2013 il primo Forum Sociale Iracheno, che ha visto la partecipazione di oltre 3000 attivisti, e una piccola delegazione internazionale guidata da Un ponte per… I giornalisti e gli avvocati che lavorano per i diritti umani continuano a denunciare gli abusi, la corruzione e i crimini dei politici, sfidando le minacce e gli attacchi che ricevono quotidianamente da milizie vicine al regime di al-Maliki, o ai partiti che controllano il Kurdistan Iracheno. Perché non vi sono angoli di questo paese in cui si possa lottare per i diritti umani senza rischiare la vita, a 11 anni dalla guerra che doveva esportare la democrazia a stelle e strisce in Medio Oriente.
L’attuale ingresso dello Stato Islamico (ISIS) nel paese e la presa di Mosul vanno quindi inseriti in un quadro politico già estremamente preoccupante, in cui il nuovo Parlamento non ha potuto riunirsi per oltre due mesi, bloccato da una Commissione Elettorale al soldo del presidente al-Maliki, che insisteva per la propria rielezione in un terzo mandato. Dopo aver schiacciato nel sangue l’opposizione politica e civile delle fazioni sunnite, ma anche di tanta parte della società civile irachena fin dalle rivolte arabe del 2011, si ergeva da anni come un nuovo dittatore. Ha assunto gli incarichi di Primo Ministro, Ministro degli Interni, Capo delle Forze Armate e dei Servizi Segreti e controlla di fatto tutti gli organi dello stato. Usa la pena di morte e la tortura come armi politiche, controlla milizie responsabili di terribili crimini contro chi si oppone al suo potere, e non ha esitato a bombardare città come Falluja e Ramadi facendo strage di civili. I crimini di guerra commessi dal 2013 dal governo iracheno nell’offensiva militare contro l’opposizione sunnita sono stati denunciati da Amnesty International e Human Rights Watch.
Così all’alba del 2014 tante frange armate dell’opposizione sunnita, anche quelle più laiche e nazionaliste come gli ex-Baathisti fedeli a Saddam, hanno deciso di accettare un’alleanza con i fondamentalisti dell’ISIS pur di combattere al-Maliki. Per questo lo Stato Islamico, con poche migliaia di combattenti, è riuscito a controllare tante province irachene, a conquistare alcuni dei principali siti petroliferi del paese, e grandi dighe che controllano il flusso d’acqua del Tigri e dell’Eufrate. Si sperava inizialmente che i suoi alleati iracheni avrebbero impedito all’ISIS di applicare la Sharia e colpire le minoranze religiose nelle aree che controllava, invece il peggio si è materializzato. Gli ultimi Cristiani sono dovuti fuggire da Mosul qualche giorno fa, senza prendere con sé nemmeno una bottiglia d’acqua, minacciati di morte se non si fossero convertiti all’Islam. Così, agli oltre 550.000 profughi interni che da gennaio 2014 avevano già lasciato le zone sunnite di al-Anbar per fuggire alla repressione di al-Maliki, si sono aggiunti da giugno altri 650.000 fuggiti da Mosul e da zone controllate dall’ISIS. Per paura dei fondamentalisti, certo, ma anche dei bombardamenti governativi che intendono combatterli.
La situazione umanitaria è gravissima, per i profughi servono beni di prima necessità, e nelle enclave abitate dalle minoranze nella piana di Ninive manca l’acqua per decine di migliaia di persone. “Un ponte per…” lavora sull’emergenza assieme ai suoi partner iracheni, con particolare attenzione alle esigenze dei profughi cristiani e yazidi, ma conta di riprendere appena possibile i programmi sociali e culturali di sostegno alla società civile e alle minoranze. Inoltre, gestendo la segreteria dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, coordina campagne congiunte tra associazioni e sindacati iracheni e internazionali, promuovendo alleanze che vadano a contrastare il militarismo e il confessionalismo istituzionale e dei gruppi armati.
Di Martina Pignatti Morano, Presidente di Un ponte per…
Tratto da Vita.it del 25 luglio 2014