Ainfijar Beirut: il Libano a 2 anni dall’esplosione
I nodi irrisolti di un paese allo stremo
Con un tempismo tristemente perfetto, a pochi giorni dall’anniversario dell’esplosione al porto, i silos sono stati avvolti da una fitta e spessa coltre di fumo provocata dal cedimento di parte della struttura, rimasta pericolante dopo il 4 agosto 2020.
di David Ruggini, Capo Missione Libano
Dall’inizio delle proteste di ottobre 2019 è frustrante dover raccontare il Libano principalmente per notizie ed eventi negativi. Dalla diffusione della pandemia a febbraio 2020 in poi, non ricordo di aver fatto un resoconto sulla situazione in Libano senza aver dovuto citare le difficoltà che il paese e la popolazione civile devono sopportare quotidianamente per sopravvivere.
Purtroppo ancora oggi mi trovo a sottolineare come la situazione politica, sociale ed economica sia estremamente complessa, caratterizzata da interessi politici regionali e internazionali che vanno al di là degli interessi del paese levantino.
Il caso del porto e il crollo dei silos sono l’ennesima immagine da copertina dell’incuria e dell’abbandono in cui vive il paese in questo momento. A due anni di distanza dall’esplosione (Ainfijar, come viene chiamata) l’inchiesta giudiziaria è praticamente sospesa, insabbiata nelle procedure amministrative senza essere riuscita a indicare i responsabili di un tale scempio. Ancora oggi mi sorprende la lungimiranza della popolazione, di colleghe/i e partners con cui avevo parlato a poche settimane dallo scoppio, sicuri che nessuno sarebbe stato indicato come il colpevole e non si sarebbe arrivati mai ad una investigazione efficace.
Conoscendo le logiche di questo paese e della sua classe dirigente il crollo dei silos in realtà non sorprende poiché da diversi mesi erano al centro di una diatriba tra governo e figure di spicco della classe dirigente da un lato e i/le parenti delle vittime dall’altro. Da diverso tempo il governo è impegnato a selezionare e approvare uno degli enormi progetti proposti dalle grandi imprese internazionali (francesi, tedesche e cinesi su tutte) in cui viene prevista la riabilitazione del porto e la gentrificazione del quartiere di Karantina.
I/le parenti delle vittime chiedono invece a gran voce che venga dato un seguito soltanto a progetti che mantengano i silos come memoriale, a futuro monito di ciò che è accaduto. E soprattutto, qualsivoglia progetto andrebbe implementato soltanto dopo la fine dell’inchiesta giudiziaria. Inchiesta, appunto, di cui si sono perse le tracce.
Troppo tardi, il grano rimasto per due anni tra le macerie ha preso fuoco e per circa tre settimane è stato lasciato bruciare nella non curanza di tutte le autorità portuali e governative. Fino al 31 luglio quando la struttura dei silos, abbondantemente indebolita, ha ceduto liberando nell’aria e nel mare polveri sottili e sostanze tossiche.
È paradossale osservare come da giorni il timore di un cedimento della struttura fosse sulla bocca di tutti/e ma dati gli enormi interessi speculativi dietro i grandi progetti di riabilitazione, nessuno ha mosso un dito per evitare l’ennesima sciagura. La Croce Rossa Libanese ha distribuito mascherine FFP2 alla popolazione dei quartieri limitrofi, raccomandando di chiudersi in casa in caso di crollo e di accendere l’aria condizionata per far circolare l’aria negli spazi chiusi. 3 ore di elettricità statale al giorno, generatore privato a pagamento per le restanti 16/18h: consigliare di accendere il condizionatore suona ancora una volta come una beffa.
Il Libano da ormai due anni vive in una condizione paradossale di sopravvivenza dove una fetta consistente della popolazione vive in assoluta povertà, mentre una piccola minoranza si arricchisce sempre di più. La forbice sociale è drammaticamente aumentata e la popolazione giovanile cerca in ogni modo di andare via. Purtroppo le elezioni di maggio non hanno prodotto un ricambio sufficiente della classe politica tale da produrre un cambiamento reale nella vita delle persone.
Il paese resta profondamente in crisi, mentre alcune sfide particolarmente delicate si affacciano all’orizzonte dei prossimi mesi.
In primis entro settembre si dovrà decidere la diatriba con Israele a proposito del confine marittimo. Confine che dalla scoperta dei giacimenti di gas a largo della costa è diventato un tema bollente. Nelle ultime settimane a largo del giacimento Karish ci sono state le solite schermaglie tra Hezbollah, in cerca di legittimazione politica post-elezioni, e Israele. Tensioni e droni ma, fortunatamente per ora, lo scontro non ha varcato i limiti che lo hanno contraddistinto negli ultimi anni. Filtra ottimismo dalle delegazioni in causa, dalla classe dirigente libanese, improvvisamente riunita da questa nuova torta da spartire, e anche dal mediatore americano. Se non ci saranno strappi nelle trattative, con un ritorno a posizioni polarizzate, resta plausibile una soluzione pacifica della controversia.
Questo però non è il solo file incandescente nelle mani del paese: in ottobre scade il mandato del presidente Aoun e la campagna elettorale per la carica di presidente della repubblica è già iniziata sottobanco, con i diversi partiti impegnati a tessere le loro trame. Nella migliore delle ipotesi in cui Michel Aoun lasci la carica senza colpo ferire, si iniziano a fare i primi nomi per la sua successione. Tra tutti il più ricorrente sembra essere quello di un altro Aoun, Joseph: capo dell’esercito libanese, gode dell’endorsement di diversi attori internazionali tra cui Francia e USA, oltre al supporto di Samir Geagea delle Forze Libanesi, divenute nel frattempo il primo partito cristiano alle ultime elezioni.
Sfide difficili e complesse attendono il paese che arriva oggi al secondo anniversario dell’esplosione con il “fiato corto”, nell’incuria e con una perenne sensazione di abbandono che si fa sempre più insistente.