Khanke. Le ore dell’abbandono | Un Ponte Per

Khanke. Le ore dell’abbandono

6 Settembre 2014, 12:52

khanke voci

 

Khanke transit Area, Dohuk, KRG, 29 Agosto 2014

Chiara, Kamal ed io viaggiamo incerti verso la periferia fino fuori Dohuk.

Chiediamo indicazioni: solo chi sta qui conosce quella sensazione da ‘’far west mediorientale’’, fatta di caldo infernale e polvere nella strada lungo la quale spuntano squadrati villaggi di cemento e qualche coraggioso camminatore.

Persi e ritrovati nel villaggio di Khanke ….Ci avevano chiesto di andare a fare una valutazione di in un campo per sfollati da poco organizzato. Dicevano essere uno dei peggiori. Arriviamo in questo spazio di transito, uno di quelli in cui le persone vengono raccolte in attesa di…. in attesa di entrare in un campo vero, di ricevere una razione di cibo, un abito pulito dopo settimane di cammino con le stesse cose appiccicate addosso, poter usare un gabinetto, fare una doccia, un semplice paio di ciabatte per camminare.

Siamo spiazzati. Il sole ci cuoce tutti con lentezza e ferocia. Vaghiamo tra le tende delle Nazioni Unite e quelle senza logo, marcate da numeri blu. E’ tutto silenzioso, all’orizzonte si staglia il fumo nero dell’impianto petrolifero di Ayn Zalah conquistato e distrutto dall’IS, anche lui nero, grande e silenzioso.

Siamo qui. Ci domandiamo anche senza parlarci come possa sopravvivere qualcuno sotto queste tende, dove la temperatura oscilla sui 60 gradi. Eppure c’e’ vita, abiti bianchi e polverosi, corpi seduti, mamme e bambine provano a lavare delle piccole cose. Ci sono tante mani e braccia che rispondono ai nostri timidi saluti.

Braccia di 1.500 famiglie che significa circa 7000 anime sopravvissute alla fuga ed al ritorno. Cerchiamo nelle tende grandi marchiate UN che in genere sono gestite da staff umanitario. Ma dentro solo bimbi, donne di ogni età, uomini. Tutti Yazidi di Sinjar, quelli che hanno dovuto  abbandonare case, oggetti e anche persone care, cosi’ con quello che avevano addosso – dice Khalil. Occhi profondissimi, lucidi, arrabbiati e commossi insieme.

“I nostri bambini hanno camminato per giorni e giorni, anche questi piccoli cosi’”, indica uno di tanti appartenenti alla sua famiglia che avrà più o meno 6 anni, senza nemmeno un paio di scarpe. “Siamo scappati in Siria e poi tornati camminando per giorni tra le montagne. Non ci siamo mai potuti cambiare questi abiti quasi incollati addosso… qui non ci sono nemmeno latrine, altro che il cielo aperto del deserto iracheno.”

Chiede volitivo qualsiasi cosa, guardandoci diretto negli occhi: cibo, acqua, un po’ di denaro, ma soprattutto di aiutare i bambini che hanno i piedi rotti e non si possono lavare. Le donne stanno in silenzio, quanto deve essere difficile … eppure ecco, creature appena nate, piccoli fornelletti da campo, il poter comunque nonostante tutto ritrovarsi insieme, ed il sonno, unica tregua alle lunghissime ore di calura.

All’uscita del campo intravediamo un camion di aiuti umanitari, pieno di scatoloni. Un’impennata di  speranza…  accosta lungo la strada  e tutti a seguire con gli occhi e poi a piedi. Sembra assurdo ma e’ cosi’..si e’ trattato di un errore,  come la nostra presenza qui. Gli aiuti vanno a Zummar. Frenata lenta ed inversione di marcia. I ragazzini arrabbiati gettano sassi contro il camion. Continua  l’abbandono.

Tutti ancora aspettano, e noi per adesso ce ne possiamo solo andare registrando questo ricordo. Commossi da tutto e dai saluti gentili, dalla polvere gialla nei capelli dei tanti bimbi che non abbiamo nemmeno il coraggio di fotografare.

Alessia Piva – Desk Cooperazione Medio Oriente